Latina e quella voglia di scrollarsi di dosso il provincialismo

Ho sempre amato le passeggiate in bicicletta, quelle che dalla periferia sud della città ti portano fino al mare. Attraversi la città, prima un po’ più metafisica, con meno gente, con la canicola che ti toglie il fiato mentre pedali, e arrivi, inghiottito dallo smog delle auto, fino a Capoportiere. Qui non ci pensi un attimo e svolti a sinistra. Ti lasci immergere nella Palude. La respiri. Socchiudi gli occhi e l’odore del mare ti investe le narici. Li riapri e il profilo della Maga Circe se ne sta sempre lì, da secoli. Da ancor prima che il (falso) mito della love story più tormentata al mondo, quella tra il seduttore seriale Ulisse e la bella Circe, si consumasse. Poi la macchia mediterranea ti stordisce quasi, coi suoi colori, con i suoi profumi, al tatto il ginepro è vischioso e intenso quando penetra le narici. Ti verrebbe voglia di masticarlo ma sai che è come il frutto dell’eucalipto, inizialmente ha un buon sapore ma poi lo sputi, disgustato, con la bocca allappata. E allora ti rinfranchi guardando le onde del mare e la spiaggia dalla sabbia color oro. Il mare a volte è incazzato e ti piace ancora di più, l’acqua si increspa e brilla, si colora d’argento, il sole ti scalda la pelle e ti verrebbe voglia di sdraiarti per spegnerti qualche minuto. Non ci sono per nessuno. Bando gioco, gridavamo da ragazzini. Era una sorta di tregua, un armistizio bonario dove beghe e contrasti cessavano, le ostilità si trasformavano in avverse complicità regnando così l’empatia. Ma eravamo mammocci, cioè ragazzini, però mammoccio, avevo imparato, era dispregiativo in città, quando tornavo ai paesi dell’infanzia, Norma o Sermoneta che fossero, mammoccio tornava un vezzeggiativo, derivava da mammella, sapeva di materno, di comfort zone. A Latina invece era sinonimo di immaturo. Solo che poi, da adulto, avevo scoperto che di mammocci ne era zeppa la città. E se si pensava alla comfort zone gli amici della città guardavano alle spalle, fissavano l’immoto moto del lago, mentre io mi ostinavo a guardare avanti. Il lago mi creava un forte senso d’inquietudine, sempre piatto, fermo, sembrava incellophanato, mentre il mare infonde serenità, somiglia più all’imprevedibilità umana, calma e tempesta a seconda dell’umore. O del meteo. E poi ti crea ponti con gli orizzonti sconfinati. Il lago no. Ne vedi i limiti, al di là della selvaggia bellezza del lago di Fogliano. Il mare, poi, quando è avvolto dalla cappa di umidità, che da queste parti è pazzesca, mi richiama alla memoria, da sempre, ‘Viandante sul mare di nebbia’. E quindi wanderlust. Desiderio di viaggiare, incapacità di stare nello stesso posto per lungo tempo. Perché la comfort zone è solo un’oasi al minutaggio e non un tetto sotto la testa per sempre.

Ecco, il senso d’inquietudine è voglia di scommettere, di sfidare, di provarci, di proiettarsi oltre le Colonne d’Ercole, sfuggire i collosi abbracci del provincialismo che tanto vorrebbe cambiare le cose, il mondo, i particolari, ma poi rimanda a domani, s’accontenta, si rifugia nel vorrei ma non posso, nella sfortuna che s’accanisce sull’animo più sensibile, nell’amara frustrazione sedata nell’ennesimo spritz, nella perversa autoreferenzialità dell’egotismo, nella presunzione più ingenua.

Latina è una città, una terra, un mosaico, sempre piena di conflitti e contrasti, ancora più amplificati, perché è un territorio estesissimo, perché c’hanno ficcato gente diversa da ogni dove e fatichiamo ancora oggi a formare una comunità, intestarditi dal morbo dell’individualismo più acceso. È un ombelico del mondo. Terra accogliente sì, ma che non amalgama. Che non rema. Che sta ferma. E se rema rema in direzione ostinata e contraria.

Le scommesse belle, quelle impossibili, affascinanti, folli, si lanciano d’estate. Quando la musica è leggera e lo scirocco spinge forte. Insomma, in estate, la scommessa folle del primo sindaco donna della città, Matilde Celentano, sostenuta da un assessore donna, tenace e visionaria come Annalisa Muzio, è stata quella di accettare una sfida a nome di tutta la collettività, candidando Latina come capitale della cultura 2026. Certo, le sfide sono fatte per essere vinte ma a volte quando non si vince si impara. Intanto, è una sfida materna. Da mammoccio, ricordate?

Un po’ come tutti ho ascoltato questa news con il sentimento del simpatizzante scettico, fino a quando ho bussato, ho varcato la soglia, ho ascoltato, ho avanzato proposte, mi sono confrontato, mi sono attivato e, forse, convinto. Ho risposto a una call to action? Ma sì. Alla fine, è la mia, la tua, la nostra città. Siamo tutti chiamati a un processo partecipativo. È Latina, la città dell’accoglienza, la città che non ha mai detto di no a nessuno, che è stata inventata ancor prima che fosse coniato il termine globalizzazione. Certo, è una città letteraria, non è banale, genera odi e amori clamorosi, vive di conflitti e di eterne contraddizioni. È Latina.

Ora sta di fatto che il dossier messo su dalla manager Daniela Cavallo ha passato le forche caudine delle prime selezioni. Ora le città aspiranti al ruolo di capitale della cultura italiana sono rimaste in 16, poi il 15 dicembre resteranno in 10. Immagino che nel frattempo le anime culturali della città si debbano muovere insieme all’amministrazione per creare, non saprei, movimenti, fermenti, attivismo. Invece assisto a dibattiti surreali su Facebook di gente che tifa al contrario, che cazzeggia, che stronzeggia, che sarcastizza, che percula. E non è gente di Frosinone, acerrima rivale in infuocati derby di calcio, ma latinensi, con la griffe della cultura stampata sul petto, mossi dal sacro furore contro, scettici della prima ora e pessimisti a oltranza, di quelli che sì hanno ragione a vedere una città depressa ma se c’è uno scatto verso il miglioramento non partorito da loro si stizziscono, si lamentano, borbottano, alzano la voce: è come se la tua squadra del cuore viene allestita ai saldi, il presidente senza un euro elemosina i servigi di un tecnico dimenticato ma la squadra, un po’ come la Estrella Polar di Osvaldo Soriano, comincia a vincere, soffrendo, certo, perché a quella squadra rabberciata nessuno regala nulla, ma vince, partita dopo partita. E quei tifosi contro ma innamorati si incazzano, perché la squadra del cuore vince contro ogni pronostico. E s’incazzano ancora di più se poi questa squadra prende fiducia e comincia anche a giocare bene, a migliorare tra i reparti, a coinvolgere piano piano più pubblico. Forse è il caso di scrollarsi di dosso l’abito della comfort zone del provincialismo e remare tutti verso il largo, magari veleggiando nella stessa direzione. Non dico che faremo gol per vincere il campionato ma almeno potremo dire di averci provato.

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