La vittoria dell’Atalanta è il trionfo della provincia

Inchiniamoci alla Dea. Mi verrebbe però da dire ‘scusate il ritardo’. E sì, perché, amando il fútbol (alla latina), resto ancorato alle belle storie e alle fiabe del calcio. E se va celebrato il Gasp e la sua banda non dimentico quell’incredibile cavalcata quasi a lieto fine dell’Atalanta del Mondo stagione 1988, quando l’Atalanta passò dalla porta di servizio per disputare la Coppa delle Coppe addirittura militando in serie B. Quella squadra di onesti pedatori si fermò alla semifinale, sconfitta dai campioni del Malines. Oggi, Bergamo e l’Atalanta si prendono la loro copertina, con merito sportivo e organizzativo e con forte spirito provinciale. E sì, non va smarrito il senso dell’ideale provinciale di una squadra che pensa come una grande (e in grande) ma ha l’umiltà di chi sa che è bravo ma non fenomeno, di chi sa che è un buon giocatore ma non un predestinato. Gli almanacchi sono pieni di calciatori bravi e onesti, che sanno bene che la congiunzione astrale può interrompersi per un rimpallo fedifrago, così quando la palla sbatte irregolare nell’area come quella impazzita di un flipper arriva Ruggeri, prodotto tipico di Zingonia, come fosse un formaggio stagionato, e dimenticandosi delle corse sfrenate sulla corsia di pertinenza l’alza a campanile manco fosse la festa patronale del borgo, senza tanti complimenti, che c’è una coppa da arpionare. Poesia sì, ma sano pragmatismo. 
Ecco, sono i valori, lo spirito, gli ideali, chiamateli come volete, della provincia, dove si respira la vera vita del Bel Paese, senza fronzoli ma imitando i grandi, aspirando alle vette del mondo, ma restando ancorati alla realtà, a quella genuina e più autentica. L’Atalanta, Bergamo, stavolta come non mai la stessa cosa, assurgono a simbolo dell’italianità del campanile, che si stringe attorno al senso di comunità, come quando nella tragedia fu guardata e ammirata da tutt’Italia nel pieno di una pandemia troppo distopica per essere compresa, con quei camion dell’Esercito che lentamente lasciavano la città morente. Era il 18 marzo 2020. Bergamo, col suo  spirito  guerriero, che ricordava un po’ quello del biondone Stromberg ai tempi di Emiliano Mondonico, si riprese in fretta, fino a infondere coraggio e tenacia, tanto che l’Atalanta del Gasp si giocò l’accesso alla semifinale di Champions League perdendo solo negli attimi finali contro il Psg di Messi e Neymar. 
Il contagio da Covid è un ricordo, ma nella memoria è rimasto quello spirito atalantino. Così, ci perdonerete, se festeggiamo una squadra su una vetta d’Europa, ricordando lutti e drammi, mischiando la gioia della vita con la morte, non dimenticando che appartengono a un Giano bifronte. Resta indomito lo spirito provinciale, dove magari una vittoria contro una big della farmaceutica come il Bayer Leverkusen potrebbe essere barattata con un bicchiere in osteria augurandosi piuttosto di vincere il derby contro il Brescia. Perché qua conta di più lo scettro territoriale che la corona da mostrare a un Continente intero. Meglio un piatto di casoncelli accompagnato da un calice di Valcalepio che le escargot à la Bourguignonne al ristorante gourmet, insomma. 
Dei peana di oggi mi resta impressa una frase di Gasperini, questo condottiero ‘provinciale’ che insegnando calcio in panca e ai microfoni non le ha mai mandate a dire. Una frase buttata ieri, a caldo, appena ufficializzato il successo in Europa League: “Non credo che io sia diventato migliore di oggi pomeriggio”. Della serie, sempre Gasp resto, anche quando s’avvelena perché gli ricordano l’esperienza fugace all’Inter, una grande. Alla fine, resta unn uomo che nutre fiducia in se stesso ma con robuste dosi di umiltà e modestia. O è sindrome dell’impostore? Non lo sapremo. Solo una cosa, Gasp: il vincente è un sognatore che ce l’ha fatta. Goditela. 

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