Austria. Unici testimoni il lago e la notte – racconto di Enrico Luceri

Il racconto UNICI TESTIMONI IL LAGO E LA NOTTE di Enrico Luceri è tratto dall’antologia ‘Cuore di Cuoio’. I racconti ci terranno compagnia durante i Campionati Europei di calcio.

Cammino prima del crepuscolo sulle rive del lago, che conosco palmo a palmo, perché sono nato e vissuto sempre qui, in questa vallata della Carinzia. Un luogo dalla natura incantevole, tanto che nessuno sospetterebbe mai la presenza del male. Eppure esiste, e si nasconde sotto le acque limpide e terse, o sui sentieri dentro i boschi di abeti, o nell’aria frizzante e pura. Si sposta veloce e inafferrabile come un animale notturno, il male, e tutti ignorano il suo volto. Tutti tranne me.
Alzo lo sguardo verso il cielo, mentre scende l’oscurità e poi lo rivolgo di nuovo al lago.
Vorrei interrogarli, il lago e la notte, perché sono gli unici testimoni oculari che hanno visto il male, oltre a me, ma loro non possono parlare, per fortuna. Vorrei interrogarli per chiedere soccorso, la risposta a un interrogativo che dubito di saper risolvere.
I primi giorni del 2016, l’estate imminente sembrava uguale alle precedenti. La solita affluenza di turisti austriaci e stranieri: il lago è famoso per la bellezza della natura, l’accoglienza della comunità locale e l’efficienza dei servizi. Il sole, i prati verde smeraldo attorno alle rive, le barche a vela che dondolano sulle onde, il profumo del cibo appena arrostito, le grida allegre dei bagnanti, le voci vivaci dei turisti, la musica dalle radio o i cellulari, una brezza leggera che rende tiepida l’aria.
Avrei lavorato sodo anche quell’anno. Insegno ai giovani come percorrere il lago in barca a vela, guido per sentieri dal panorama mozzafiato gli appassionati di trekking e, mentre lavoro, alleno il mio fisico. Scaliamo percorsi suggestivi sospesi fra l’azzurro del lago e quello del cielo, che sembrano di smalto, affascinati dai panorami di alpeggi e baite dal tetto spiovente. Al riparo dei boschi di larici, abeti e pini, i turisti scoprono orme di orsi e stambecchi, e a volte osservano le marmotte correre a nascondersi nella tana scavata accanto alla radice di un albero, quando un nibbio si alza in volo alla ricerca della preda. Un rapace che sorveglia il territorio e scova con la sua infallibile vista la prossima vittima. Perché il rispetto della natura e la tutela dell’ambiente non possono cambiare le abitudini secolari della lotta fra preda e predatore. Questo pensiero mi provoca un brivido, molto diverso da quello che sento quando un vento freddo e tagliente scende dalle cime dei monti o soffia dalla superficie del lago.
D’inverno mi allontano per qualche chilometro da qui, e salgo sulle piste alpine dove ho un incarico stagionale come maestro di sci.
Sì, sembrava proprio una stagione uguale alle altre.
Ristoranti, bar e alberghi avevano installato grandi schermi televisivi anche all’aperto, nei giardini, perché per un mese gli sportivi avrebbero seguito i campionati europei di calcio, ospitati dalla Francia. Ragazzini che indossavano la maglia della squadra preferita, tifosi di ogni età che allo stesso modo esultavano per un gol fatto o imprecavano per uno fallito, intere famiglie che guardavano le partite come ipnotizzati, mangiando panini imbottiti di würstel con senape e bevendo birra. Ogni comitiva sosteneva la propria nazionale, ovvio, ma in segreto, o quasi, come i turisti dei paesi che non si erano qualificati per il torneo, speravano che vincesse un giocatore, più che una squadra: Cristiano Ronaldo.
Anche la nostra nazionale di calcio aveva raggiunto la fase finale del campionato europeo. Ma le speranze degli sportivi furono deluse. L’Austria subì una sconfitta amara dai tradizionali rivali ungheresi, e una imprevedibile dalla sorprendente Islanda. Ma pareggiò con il Portogallo, e Cristiano Ronaldo sbagliò un rigore. I tifosi come me tirarono un sospiro di sollievo, però sospetto che molte ragazze austriache abbiano solo finto di esultare per lo scampato pericolo, e in realtà fossero addolorate per lo sconforto del loro idolo.
Anche Stefania tifava per lui, Cristiano Ronaldo. Dopo l’Italia, naturalmente. E per il Milan, perché lei era arrivata qui in vacanza da sola, da un paese in provincia di Varese. Da sola, perché, mi spiegò in seguito, doveva smaltire la sofferenza per una storia finita male. In conseguenza della quale aveva deciso di restare single per un po’. E invece conobbe me.
Sembrava una storiella estiva, quella con Stefania, un’avventura nata sotto il sole di giugno, destinata a finire insieme alla vacanza, quando una pioggia improvvisa bagna l’erba dei prati attorno al lago e gli ombrelloni vengono chiusi precipitosamente. Lei mi piaceva, anzi forse ne ero davvero innamorato, così le credetti quando mi disse che rientrava a casa solo per sistemare le cose e sarebbe tornata da me per sempre.
Stefania partì dopo la metà di giugno. E io aspettavo di rivederla. Forse ero davvero innamorato di lei. Ogni giorno pensavo: domani sarà quello buono.
Ma lei non tornava. Verso l’inizio di luglio ho conosciuto una biondina di Lubiana, che era arrivata in autostop dalla frontiera slovena per qualche giorno di vacanza, allettata dai prezzi convenienti di una pensione che aveva scovato su Internet. Era tornato il sole. Sulle rive del lago fu aperto di nuovo qualche ombrellone.
Questi ricordi mi assalgono quando leggo certe notizie sul giornale.
Mi alzo dal divano e piego il quotidiano: in prima pagina, a caratteri cubitali, la notizia di un nuovo delitto del killer delle turiste, quello che da qualche anno colpisce, con implacabile e crudele precisione intorno alla metà di luglio, quando la sera il sole tramonta di colpo e un vento secco piega le cime degli alberi e agita le acque del lago. Apro il cassetto delle posate e cerco un coltello dalla lunga lama piatta. Ho sentito in televisione che la polizia dispone di sostanze chimiche in grado di individuare tracce di sangue anche a distanza di parecchi anni. Scrollo le spalle e sorrido. A chi potrebbe venire in mente di cercare una prova simile nella cucina di un uomo innocuo e anonimo come me? A scanso di equivoci, poso il coltello nel lavandino e lo lavo accuratamente.
Stefania arrivò da Varese nel tardo pomeriggio di una domenica. Il 10 luglio. Non mi aveva avvisato, altrimenti non mi avrebbe sorpreso a letto con la biondina di Lubiana. Non fece scenate, si limitò a chiudere dolcemente la porta. Temetti che fosse scappata via, magari a prendere di nuovo il treno per Milano. Invece, era ancora là, seduta tranquillamente nel salone. Non disse una parola, finché non vide con la coda dell’occhio la ragazza slovena che fuggiva, dopo essersi rivestita frettolosamente. Non mi chiese nulla e non fece alcun commento.
La televisione era accesa, ma l’audio abbassato. Nella finale del campionato europeo si affrontavano la nazionale di casa, la Francia, e quella dell’idolo dei tifosi, il Portogallo di Cristiano Ronaldo. I miei occhi osservarono Stefania alzarsi dalla sedia con volto impassibile, mentre quello del campione portoghese, che usciva dal campo dopo essersi infortunato per il fallo di un avversario, tradiva sofferenza e delusione.
Stefania oggi è ancora qui con me: pensavo che avesse dimenticato la mia scappatella invece, quando torna luglio e i turisti affollano questo incantevole lago alpino, si risveglia la sua gelosia. Aspetta che sia notte e io dorma profondamente, per alzarsi e frugare nel cassetto della cucina, alla ricerca di un coltello dalla lunga lama piatta, poi esce piano di casa, confondendosi con le tenebre e la foschia che si alza dal lago e sbiadisce le strade deserte, le facciate degli alberghi e le tende dei campeggiatori.
Quando s’infila nuovamente a letto, sono ancora addormentato.
Il giorno dopo, una ragazza bionda sarà trovata in un vicolo, o vicino a una rimessa delle barche, o dietro i primi alberi del bosco. Con la gola tagliata. Le autorità e i giornali di solito camuffano la realtà, alludono a una disgrazia, o un suicidio. Non si può rischiare di rovinare la stagione del turismo con la minaccia di un assassino seriale. La polizia tace, ma io so che continua a indagare, e a pattugliare con discrezione paesini e località turistiche, ma finora senza successo.
Sembra che dia la caccia a un fantasma.
So che l’assassina è Stefania, perché l’ho seguita. Sono certo che, senza dare nell’occhio, scelga la sua preda con calma e cura. Quando l’ha trovata, comincia a pedinarla, a studiarne le abitudini, gli orari, gli sport che pratica. Preferisce accanirsi su ragazze sole, come era la biondina di Lubiana. O come era lei, quando venne fin qui dal suo paese, vicino Varese, reduce da una delusione sentimentale e conobbe me.
Sospettavo che la sera prima sciogliesse qualcosa nel mio bicchiere, qualcosa che rendesse il mio sonno così profondo da non accorgermi del suo andirivieni. Infatti. Frugando nella sua borsetta, ho trovato una boccetta di sonnifero.
Così, nei primi giorni di luglio, dopo cena, rovescio in un vaso di fiori il bicchiere di bibita che Stefania versa in cucina, facendo tintinnare i cubetti di ghiaccio. Poi fingo di andare a letto, sbadigliando stanco dopo una giornata trascorsa insegnando ai turisti come si governa una barca a vela o guidandoli per sentieri. In realtà aspetto che lei scivoli fuori di casa, dopo aver frugato nel cassetto dei coltelli. La seguo ma la perdo sempre di vista nel luogo invisibile dove un incantesimo crudele risveglia la sua follia, in un vicolo o piazzetta dove è calata rapidamente la foschia umida del lago che rende più dense le tenebre.
Quando leggo del nuovo delitto del killer delle turiste bionde, mi sento colpevole e vittima allo stesso tempo di questa strana follia, che si consuma ogni anno, nel breve volgere di pochi giorni, come certi amori nati sulle rive del lago, quando piogge estive improvvise e violente bagnano l’erba sulle rive. Stringo la testa fra le mani, vorrei evitare di sentire dentro di me le grida dei tifosi che festeggiano la vittoria del Portogallo di Cristiano Ronaldo, perché finiscono per confondersi nell’urlo muto della ragazza che ha compreso troppo tardi di essere caduta in trappola. In trappola in questa incantevole vallata, così pulita, efficiente, curata che nessuno potrebbe mai sospettare la presenza del male. Che invece esiste.
Camminerò ancora a lungo sulle rive, dopo il crepuscolo, per interrogare il lago e la notte, gli unici testimoni oculari del delirio criminale di Stefania, sperando un giorno che la risacca delle onde o la brezza che spira dal buio mi sussurrino come fermare questa follia omicida.
Vorrei credere che l’assassino sia luglio, un mese che imbroglia, che finge di essere estate, ma nelle serate di foschia coltiva un sospetto d’autunno. Un mese che confonde e inganna, e ogni anno pretende un’altra vittima.
O forse il colpevole sono solo io. Colpevole, e anche complice, perché quando torna luglio so già che non riuscirò a fermare Stefania, e potrò solo pulire accuratamente la lunga lama piatta del coltello.

 

Enrico Luceri (Roma, 1960) è un autore di gialli. Fra i suoi romanzi: Le notti della luna rossa (Mondadori, 2019), Lo sguardo dell’abisso (DrawUp, 2019), L’ora più buia della notte (Mondadori, 2017), Le colpe dei figli (Mondadori, 2015), Buio come una cantina chiusa (Mondadori, 2013), Le strade di sera (Hobby&Work, 2012) e Il mio volto è uno specchio (Mondadori, 2008).

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