Ci sono luoghi che evocano altrove. Uno di questi è Itaca. Nell’immaginario collettivo meta impossibile da raggiungere, terra di ritorno dopo una vita di (dis)avventure, luogo di ritiro, porto e approdo sicuro. Paolo Ciampi, giornalista e scrittore di profonda qualità, ma anche animatore e collante culturale, ha ereditato dai genitori una casa a Fiesole, alle porte di Firenze, pensando bene di farne un punto di riferimento per chi ama scrivere e viaggiare, ma soprattutto è mosso dalla divina curiositas del vivere.
Altro che b&b, Itaca è un luogo dell’anima, è l’altrove dove in ogni momento Paolo Ciampi respira le madeleine della sua infanzia e, immaginiamo, sia l’altrove dove ogni scrittore troverà la sua dimensione. È così?
Lo spero, è l’idea che mi ha accompagnato da quando i miei mi hanno lasciato in eredità questa loro casa alle pendici di Fiesole, una casa peraltro da sempre inondata da libri di ogni genere. Non volevo farne il solito B&B, ce ne sono anche troppi a Firenze, città che casomai ha perso fin troppi luoghi di incontro. Ho pensato a una casa del libro e a una residenza per scrittori e artisti che qui potranno lavorare ma anche mescolarsi con noi. Ho pensato a tre C – cultura, creatività, convivialità – che insieme portano a una quarta C – casa. Questa rimane una casa ma una casa che si apre e accoglie.
La poesia ‘Itaca’ di Costantino Kafavis quanto l’ha influenzata nel disegnare questo suo progetto?
Più che altro ci hanno pensato diverse persone che all’inaugurazione l’hanno portata e letta. Questa poesia me la porto da sempre con me, assieme all’idea del ritorno, che più della partenza mi restituisce il senso del viaggio. Itaca è un’isola – e abbiamo bisogno di isole di cultura e socialità in questi nostri tempi; è un porto – e ai porti attraccano le persone più diverse che poi però possono incontrarsi e raccontare le loro storie. Itaca mescola realtà e sogno – e questo vale un po’ per tutti i libri. Mi sembra il nome giusto per questa casa: una Itaca senza mare, ai piedi di una collina.
Se le dico nostos e algos, i termini che racchiudono la nostalgia, cosa risponde?
Mi piacciono le etimologie, rifletterci è come spremere il succo delle arance. Quella di nostalgia non è affatto scontata, così come la storia di questa parola, che odora di antichità classica, ma in effetti viene adoperata per la prima volta per i mercenari svizzeri al servizio di Luigi XIV. Esprime il dolore o il rimpianto per ciò che ci siamo lasciati alle spalle ma a me richiama anche la difficoltà del ritorno, quando ritorniamo a ciò da cui ci eravamo separati e le cose non corrispondono più al ricordo e alle aspettative. C’è una nostalgia che fa male, ma io mi tengo stretta anche una nostalgia dolce, che avvolge come una musica di sottofondo. E la nostalgia può essere persino una bussola, capace di orientare il nostro viaggio.
Da quanto tempo ci pensava su di creare un buen retiro temporaneo per scrittori?
Da quando ho avuto a disposizione questa casa. Cosa me ne faccio ora? – questo mi sono chiesto. Per fortuna ho un buon lavoro, posso resistere a certe tentazioni. Certo, poi i conti alla fine devono tornare. Ma ci sono risultati che non si misurano con il conto in banca e che hanno a che vedere con la possibilità di stare bene con noi stessi e con gli altri.
È possibile creare una rete in tutta Italia di luoghi in cui gli scrittori trovano quiete dalla loro inquietudine, un momento di pausa dalla loro wanderlust, una location magica in cui incontrare i lettori e chiacchierare con loro?
Credo che non sia solo possibile, ma che sia una piccola grande sfida che meriti di essere affrontata. Non solo per gli scrittori, ma per tutti coloro che, da soli o con le loro associazioni, cercano di dare qualità alle loro città, ai loro paesi, ai loro quartieri, nel segno di una cultura aperta e pronta ad accogliere e a misurarsi con le differenze. E poi mi piacciono le mappe e so che ogni mappa esprime un modo di vedere e a volte anche un desiderio. Il mio è quello di mettere in rete luoghi che si aprono nel segno delle tre C di cui sopra. Non sono, non siamo soli: quando ha cominciato a circolare la notizia di Itaca mi hanno cercato da Matera, Bari, Palermo, Milano. Insieme possiamo farlo.
Talvolta sembra che per gli incontri letterari in alcune città non ci sia spazio, ma deve davvero intervenire il privato per valorizzare uno scrittore che di solito in modo del tutto naturale promuove personaggi, tendenze, luoghi?
Credo che sia venuto il momento di una riflessione pubblica sulle politiche culturali di tante amministrazioni, che magari lamentano i tagli ai bilanci ma poi fanno le loro scelte sui finanziamenti a disposizione: e le scelte quasi sempre riguardano grandi eventi – eventi vetrina e passerella – che poi lasciano poco o niente.
Auspico più attenzione per ciò che è piccolo e diffuso, per ciò che può più facilmente ospitare anche forme di creatività che non calano dall’alto, che sono espressione di progetti e percorsi del posto.
E poi penso che certe cose si debbano iniziare a fare dove prima non si facevano. Non nei luoghi deputati, per così dire tradizionali: ma piuttosto adoperando i giardini, i pub, le panchine delle piazze, persino le edicole. E sarebbe già tanto se le amministrazioni non mettessero i bastoni tra le ruote, ma casomai aiutassero a risolvere i tanti impedimenti della burocrazia.
Lei descrivendo la sua ‘Itaca’ ha sempre ribadito che non è un luogo per accademici ma un salotto dove ci si incontra e si trova un clima familiare e conviviale. Perché ogni volta lo sottolinea?
Perché secondo me Itaca richiama anche una riflessione sul concetto stesso di incontri letterari. Per dirne una, ho l’impressione che il modello di presentazione di una volta sia ormai molto logoro e che si debba invece puntare su luoghi e situazioni che diano il senso dell’esperienza condivisa, partecipata.
C’è troppa autoreferenzialità. C’è anche troppa vanità e spesso e volentieri è una vanità che produce effetti boomerang. Meglio situazioni dove ci si mescola, ci si contamina, si concede ad altri visibilità e parola. Ce ne avvantaggiamo tutti. E soprattutto è l’unica via per tenere a galla il mondo del libro, che ha bisogno di nuovi lettori, di più, di nuove generazioni di lettori.
Credo sia essenziale l’idea di comunità. O meglio, di tante, piccole comunità, che vivono di relazioni, iniziative, spazi, che sanno essere punto di riferimento e che si fanno forti del loro carattere orizzontale.
Come a Itaca, il cui primo risultato è stato di far emergere un diverso vicinato. Gente che prima si limitava a scambiare un buongiorno o un buonasera e che ora mi ferma per strada e domanda: che fate stasera?
Tra le tante attività, ha anche una casa editrice, la sua si chiama ‘I libri di Mompracem’: quanto Salgari con la sua fantasia l’ha influenzata nella ricerca e nella creazione letteraria?
Salgari è la lettura adolescenziale degli amici che condividono come me l’esperienza dei Libri di Mompracem e che un po’ adolescenti vogliono comunque rimanere. Non fosse altro che provare a misurarsi oggi con il mondo dei libri ha qualcosa del romanzo di avventure.
Mompracem richiama un’isola immaginaria che ha sorprendenti implicazioni con la realtà. Allo stesso tempo evoca rotte poco battute, viaggi che non dispongono di carte segnate e guide sicure. Per me sono anche i viaggi che i libri – e la fantasia – consentono di fare. In questo modo, grazie a Salgari, ho viaggiato dal Borneo alle Antille, dal Sahara alla Patagonia.
Mompracem, ricordo, prima ancora di un piccolo editore è un’associazione per la promozione del libro e della lettura. Il che vuol dire che, in un certo senso, siamo anche un’agenzia di viaggi. Col tappeto volante delle parole.
Lei si definisce oltre che scrittore anche un camminatore. Che cos’è il viaggio per lei?
Il viaggio è movimento interiore ed esperienza in cui si impara qualcosa di noi stessi attraverso il mondo e del mondo attraverso noi stessi. È la possibilità di gettare uno sguardo diverso alla nostra vita di ogni giorno, dopo essersi procurata la giusta distanza. E anche di riordinare le nostre priorità. Allo stesso tempo è una formidabile palestra di attenzione – soprattutto se scegliamo la lentezza delle nostre gambe: in questo modo lasciamo scorrere l’acqua sporca di tanti nostri pensieri e ci riempiamo di nuova acqua, fresca, pulita.
Il suo ultimo viaggio?
Molto vicino, perché è da un po’ che non misuro più i viaggi sui chilometri che mi separano da casa. Ci sono viaggi molto lontani che implicano spostamenti brevi. L’ultimo è stato il cammino nelle terre di Matilde di Canossa, tra l’Emilia e la mia Toscana. Sette giorni a piedi e la scommessa di rintracciare ciò che rimane di una vita dopo che è trascorso all’incirca un millennio. Questo è anche il tema del mio ultimo libro, In compagnia di Matilde, uscito per Mursia.
E il prossimo?
La Romania, paese vicino e lontano allo stesso tempo. La comunità più grande di cittadini stranieri in Italia, ma anche sostanzialmente invisibile.
Il viaggio che le ha lasciato più ricordi?
Un viaggio molto lontano e un viaggio molto vicino. Il primo in Sarawak, dove mi ero spinto per cercare tracce di Emilio Salgari: non le ho trovate ma ho avuto conferma che i libri davvero consentono di viaggiare. Il secondo il cammino sulla Via degli Dei che unisce Bologna e Firenze, un viaggio vicino a casa ma che mi ha dato il senso di un’altra Italia.
Lei è stato candidato due volte al Premio Strega, con due libri (‘L’ambasciatore delle foreste’ e ‘Il maragià di Firenze’) che si ispirano a due personaggi reali: quanto le piace scavare nella vita degli altri, di quei protagonisti della storia e dei microcosmi che meriterebbero maggiore attenzione?
È parte importante della mia vita, si traduca in libri o no. Ogni persona è una storia che meriterebbe di essere raccontata. E poi ci sono storie che riguardano persone travolte dalla Storia con la esse maiuscola o comunque finite in pieghe trascurate. Allora indagare e raccontare diventa anche un atto di riparazione.
Cosa l’ha spinta a scrivere un libro su Carlo Lorenzini, il papà del burattino più famoso al mondo, attraverso un ritratto inedito e commovente in ‘Il babbo di Pinocchio’?
Pinocchio è un’opera universale, letta di generazione in generazione, la più tradotta al mondo dopo il Piccolo Principe. Eppure del suo autore si sa poco o niente, mi sa che tanti ignorano anche il suo vero nome o le sue radici profondamente fiorentine. Mi ha affascinato questo contrasto, che può suggerire molto sul rapporto che lega lo scrittore al suo lavoro, soprattutto quando questo rapporto è mediato dalla scelta di uno pseudonimo. E poi Lorenzini è stato uno dei più grandi giornalisti italiani, capace di mettere il dito nella piaga dei nostri limiti e dei nostri difetti.
Lei è orgogliosamente fiorentino. Si sente un predestinato se si volge indietro e guarda che è nipote di Dante e Collodi oltre che di Manzoni che ‘sciacquò panni in Arno’?
No, un predestinato no, direi piuttosto una persona consapevole dell’eredità di questa città. Essere fiorentino non è semplice, anche per questa eredità che spesso schiaccia e rende complicato il rapporto col presente. Viene facile guardare troppo indietro e a volte è anche un alibi per stare fermi. Poi è anche vero che per un fiorentino parlare male della sua città è il modo di declinare il suo amore.
Paolo Ciampi in un aggettivo.
Mi piace definirmi curioso. Non nel senso di persona bizzarra, ma di persona che la curiosità la coltiva.