Non ho ancora letto il memoir di Ada D’Adamo, la scrittrice che ha vinto il Premio Strega. Forse lo leggerò. E sarà un omaggio a un’autrice che sale di diritto sull’Olimpo degli scrittori ma che non potrà godersi questo successo. E già. Ci si chiederà quanto è pesato sulla giuria il fardello colmo di profonda sensibilità che suscita la storia di Ada, scomparsa a 55 anni il 1° aprile (e già qui verrebbe sarcasticamente da sorridere sul concetto farsesco che appartiene alla vita), e quindi quanto, senza essere falsi ipocriti, sia stata influenzata nel decidere il vincitore del più importante premio letterario italiano. ‘Come d’aria’ (Elliot) ha vinto così la 77ma edizione del Premio Strega, una storia toccante che ha sbrecciato nei cuori dei giurati, una storia di sofferenza che accomuna madre e figlia. Nel 2005 Ada, che ha sempre lavorato nel mondo della danza e del teatro, dà alla luce Daria, a cui viene diagnosticata un’oloprosencefalia, malattia caratterizzata da una grave malformazione cerebrale che la renderà completamente invalida. Ada affronta momenti duri, come quello di crescere una figlia disabile, denunciando le lacune istituzionali fino ad ammettere che avrebbe interrotto la propria gravidanza se le fosse stato possibile, tornando sul tema del diritto all’aborto. Dopo aver scoperto il suo tumore, nel 2013 comincia a scrivere ‘Come d’aria’, il suo primo romanzo, questo rapporto di sofferenza, malinconia e impotenza che la lega alla figlia. E vince, postumo, il Premio Strega. Che storia beffarda.
“Credo che Ada stia mandando un messaggio a tutti, ai giovani, alle donne, agli uomini. Lo sta facendo a suo modo. Ha sempre usato toni bassi, in questo momento è silenziosa ma quello che so io è che le sue parole cammineranno a lungo” ha detto Alfredo Favi, marito di Ada D’Adamo subito dopo la proclamazione. Una speranza che, poi, si traduce anche nella gioia di una casa editrice che è importante ma non è certo una major. Quindi, la vittoria di Ada ha molti significati, ma la ritengo beffarda e ingiusta, figlia di un destino balordo. Ne parlavo spesso con Andrea G. Pinketts: gli encomi, i premi, i busti, le statue, le vie, le piazze, ma perché non conferire questi riconoscimenti quando si è vivi? Perché per una volta non ci facciamo noi, comuni mortali, beffe della morte?