Trieste, i confini e gli altrove: come superare i limiti con Rumiz e Covacich

Terra di confine. Non solo fisico, ma anche d’anima. Perché un luogo talvolta assume le sembianze dell’altrove solo per le sue suggestioni. Poi, ci sono quei luoghi che per motivi mistici diventano terra di confine a prescindere, fondendo la materialità del territorio con le periferie indefinite dell’anima. E prendono il nome di altrove. Trieste è un altrove. Lo leggi nelle espressioni di Paolo Rumiz e di Mauro Covacich, voci mai stanche di ribadire quello che per loro è naturale: Trieste è un luogo di confine che produce e assiste, che genera e che non ultima. E anche alla Buchmasse di Francoforte il concetto esistenziale, e decisamente materiale, se ancora nessuno lo avesse capito, viene calato da due assi della letteratura contemporanea italiana. Anche se verrebbe da dire triestina. Non è un caso, perché il caso non resta altro che un appuntamento deciso dal destino, che l’evento in questione alla fiera del libro più importante del mondo si intitoli ‘Living on the edge of the line’. I due autori non si lasciano pregare, non devono nemmeno sforzarsi, possiedono il flusso e lo lasciano scorrere con quella naturalezza che incanta e conquista.
Chi nasce a Trieste è un predestinato. Di questo ne hanno consapevolezza Rumiz e Covacich, non a caso due cognomi che a dispetto del nome, Paolo e Mauro, non hanno una radice così italiana strettamente declinata dall’immaginario collettivo. “Eppure per comunicare abbiamo scelto di scrivere in italiano, sebbene io conosca il tedesco per via della lingua parlata dai miei nonni che hanno vissuto sotto l’Impero asburgico -ricorda Rumiz-. E una grande insegnante è stata mia nonna, di origine polacca, che quando ero bambino mi raccontava della grande commedia che è la vita, con l’Impero austriaco, il nazismo, il fascismo a susseguirsi. In verità, c’ho impiegato del tempo per capire che la vita non è una commedia, ma sempre su questa linea dei ricordi da bambino sono stato fuorviato quando a Trieste assistevo ai concerti di un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio, così contagioso nella sua voglia di ridere, così allegro, così affamato di vita”. Ed è quella fame, se vogliamo divina curiositas, che Rumiz non si stanca di ripetere, fondamentale per vivere/sopravvivere ma anche per raccontare scrivendo, plasmando quelle emozioni proprie e altrui che poi si trasmettono ai lettori in nome di una empatica connessione spirituale. Sa sorridere alla vita, Rumiz, “cresciuto a vino dalmata e luppolo tedesco”, sempre più consapevole che Trieste è Trieste proprio perché ha fatto della non appartenenza la sua identità, luogo di immigrazione in nome della storia e del tempo attuale, città simbolo che accoglie. Rumiz non si nasconde, dice quello che pensa e pensa quello che dice, fa sua la lezione di Antonio Gramsci del ruolo sociale e politico dello scrittore, ma va oltre, perché alla fine lui adora il confine, quella linea di perimetro sottile e solida allo stesso tempo, perché sa che non ci fosse il confine non ci sarebbero quelle diversità e quelle differenze che sono l’emblema della conoscenza che si traduce e trasforma nella ricchezza del sapere. Così si batte contro l’ipocrisia, una certa forte, radicata, ipocrisia della sinistra, che indiscriminatamente e generalmente parla di accoglienza, mentre dall’altra parte confuta quelle paure su cui soffiano le destre verso ciò che è straniero che alla fine si tramutano nella deriva del razzismo: “dobbiamo riconquistare una posizione di centro” dice, con semplicità, traducendo che la soluzione resta sempre un confronto/conflitto tra tesi e antitesi. “Così, l’Europa si sta suicidando. Sta andando verso un suicidio assistito” dice, memore della tragedia della violenta frammentazione della Jugoslavia raccontata in ‘Maschere per un massacro’, vive del suo straordinario punto di osservazione, che non è solo Trieste ma il mondo su cui passeggia nei suoi innumerevoli viaggi e da cui trae continui spunti di riflessione, dalla via Appia al Danubio, dai monasteri alle coste e alle praterie sconfinate dell’Europa.
E sulla stessa linea corre anche Mauro Covacich, anche se resta meno convinto del ruolo politico dello scrittore, quella funzione la lascia all’istituzione, anche se sa che la parola è fondamentale per risvegliare le coscienze, tant’è che insieme a Rumiz ripete questo concetto più e più volte. “Un libro deve avere la capacità di svegliarti come se ricevessi un pugno in testa” dice citando Kafka -che adora, e che in ordine di tempo è la sua ultima fatica letteraria-, ricordando la sua metafora dell’ascia che spacca il ghiaccio dentro di noi. Sì, hanno ragione entrambi, la letteratura deve portare il lettore in un ambito che non conosce, in un posto dell’anima dove forse non vorremmo mai andare. Alla fine, anche questo è un modo per varcare quei confini che sono dei limiti. Fuori e dentro di noi. Per fortuna che esistono gli altrove. Trieste è uno di quelli.

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