Ogni volta che Latina celebra i suoi anni esce fuori la polemica della nostalgia fascista. Breve storia di una città che prova a scrollarsi di dosso il peccato originale, magari indossando una maglia futurista con le opere di Sibò.
Da una parte il politicamente corretto che cerca di mettere sullo stesso piano ogni disuguaglianza, di pacificare le differenze e di trasformarci tutti in buonisti più mansueti di un bambino che a Natale sta aspettando tra albero e camino Santa Klaus per ricevere il regalo della vita. Poi, però, appena qualcuno azzarda un riferimento che non rispecchia il livellamento del pensiero woke e di una certa sinistra (ormai diamo un nome alle cose. Al bando l’ipocrisia, del resto è Natale e siamo tutti più sinceri) allora apriti cielo. Quella riflessione non è contemplata, viene bollata, quasi infoibata, come può addirittura essere una descrizione che abbraccia la Storia, le storie, gli aneddoti: insomma, si possono sì riportare ma solo per essere ridicolizzati, distorcendone la narrazione. Insomma, stiamo assistendo a un inedito conflitto ideologico tra due estremi, perché tra incudine e martello chi ci rimette è sempre chi sta nel mezzo. Altro che la verità di Protagora.
Ma andiamo al nocciolo della questione. Latina è una città particolare. Ha una data di nascita. Anzi, è molto particolare, perché ha anche quella del concepimento: 18 dicembre la prima, quella dell’inaugurazione, 30 giugno la seconda, con la posa della prima pietra. Ah, è stata fondata durante il Fascismo, col taglio del nastro tagliato direttamente dal Duce Mussolini, che è vero prima non era convinto di creare una città ma solo un borgo di servizi a uso e consumo di altre piccole borgate di coloni ma poi ne capì il potenziale a livello di propaganda, approfittandone facendone un vanto del regime, con la filosofia dell’uomo che vince la natura ostile, che crea città nuove a misura d’uomo, che concede seconde opportunità a chi ha perso anche la speranza. Certo, tutte le ciambelle (pardòn, le città) non riescono col buco, così Latina da ordinata e rigida città metafisica è rimasta nel tempo una città vuota, con gli spazi troppo larghi per essere riempiti da gente, non ha mai avuto un autentico collante sociale tant’è che il mosaico di genti che sono succedute nella sua breve storia (nemmeno cent’anni, chissà se di solitudine) non si sono mai sentite appartenenti a un’unica comunità. Eppure, questo splendido laboratorio di genti disperate e sole così diverse tra di loro ma accolti in una terra fertile, ospitale, comoda e gentile (ogni tanto usateli questi aggettivi quando parlate di questa città), non ha mai sviluppato il senso innato della conquista e dell’apertura empatica, ma s’è rintanata in se stessa, racchiusa nel proprio guscio, avvitata sulle sue poche convinzioni. No, non ha fatto comunità. Veneti, emiliani, friulani, lepini e poi campani, istriani, dalmati e poi gente affamata di libertà come quelli che cercavano una vita oltre la cortina di ferro prima ancora che crollasse il muro di Berlino, e poi ancora italiani della Tunisia e della Libia cacciati via, e poi polacchi grazie a un Papa solidale, e prima ancora maghrebini e dopo indiani: insomma, è sempre stata la città dell’accoglienza. A dispetto di quello che ancora oggi si vuole far passare questa città. E sì, perché questa città è disprezzata da tutti, soprattutto da chi ci abita, ci lavora, la frequenta, la percorre. È una città che si porta dietro il peccato originale, dicono. È nata sotto il Duce, era la prediletta del Duce. Poi, le hanno cambiato il nome come si usa quando una dittatura crolla. Da Littoria a Latina. Io sono di Latina, mi sento di Latina, a Littoria non c’ho mai pensato, perché non m’appartiene. Ma non mi dà nemmeno fastidio il vecchio nome della mia città. Appartiene alla Storia, al tempo che passa e muta le cose, che le pacifica, almeno dovrebbe pacificarle. Alla mia città, da latinense, non ho mai fatto sconti. La amo. E la odio. La odio. E la amo. Ho da sempre un rapporto conflittuale con lei, perché è una città che ha ancora oggi un potenziale enorme ma che non s’è mai trasformato in atto. Mi sono sentito tradito tante volte, ma forse tante volte l’ho tradita anche io, ma non l’ho mai insultata perché è una città nata nera. Né mi sono mai vergognato di questo. Non perché non c’ero, ma perché anche se ci fossi stato non sarebbe cambiato nulla: è una città che appartiene alla Storia. Una Storia che è stata processata e che è finita a testa in giù. Così, quello che oggi continua a farmi rabbia è che anche questa città la si vorrebbe a testa in giù, ma senza motivo, perché se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli non capisco per quale motivo i cittadini di Latina debbano vergognarsi della propria città e delle proprie origini. A noi piacciono queste storie di riscatto, di chi nasce sotto una cattiva stella ma poi si ribella al proprio destino cinico, almeno ci prova: se per gli esseri umani vale questa chance per Latina pare proprio di no. Al netto di anacronistiche marce, marcette, oli di ricino, camicie nere e inni vari (ah, ve lo dico subito: io adoro ‘Giovinezza’, che è sì divenuto un emblema del Fascismo ma è stata scritta nel 1909. Ed è un testo stupendo, altro che le oscenità da bidet di Tonj Effe, così acclamate da cantautori solidali che si sentono profeti di messaggi per un mondo migliore ma poi sostengono chi veicola videoclip che inneggiano alla violenza e alla sopraffazione), ho trovato simpatica l’iniziativa del Latina calcio, squadra per cui tifo con la stessa visceralità di quella che dovrebbe essere la prima squadra (la Roma. Eh, lo so, nessuno è perfetto) per festeggiare il compleanno della città.
La società nerazzurra ha voluto celebrare i 92 anni con una maglia futurista, un mix di linee e colori che richiama l’arte di Pierluigi Bossi detto Sibò, azzardando anche dietro il colletto la scritta ‘Littoria’. Una sintesi e un coacervo di conflitti di cromie e di emozioni, come è nel codice genetico di una città che mai è stata analgesica. E sono piovute polemiche e critiche. Qualcuno ha anche indicato che Sibò non è originario di Latina ma da milanese vi si era trasferito: fatto anomalo per una città nata nel 1932, destinazione per chi ha amato la globalizzazione prima ancora che fosse un concetto universale… Ah, il Latina calcio indossando quella maglia quella partita l’ha, ovviamente, persa. È un periodo nero per il calcio, e il nero, si sa, si addice alla storia del Latina e di Latina. Ma io, in barba a qualsiasi simpatia, credo, dogma, nostalgia, damnatio memoriae, ostracismo dir si voglia, da perfetto innamorato deluso di Latina, quella maglia l’ho comprata e ordinata per farci i regali di Natale.
Buon Natale a tutti. Soprattutto ai latinensi.
(Gian Luca Campagna)