Il racconto LA NAZIONALE DEGLI ESULI di Diego Zandel è tratto dall’antologia ‘Cuore di Cuoio’. I racconti ci terranno compagnia durante i Campionati Europei di calcio.
Mio padre tifava Italia con uno spirito passionale che credo non esista più. Non solo mio padre, ma tutti gli esuli istriani, fiumani e dalmati delle varie comunità raccolte nelle diverse città in cui si erano formate. Al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, quando l’apparecchio televisivo era ancora privilegio di pochi, verso la fine degli anni Cinquanta, ci si riuniva al Bar Zara, in fondo a un padiglione di quei dormitori che avevano accolto le nostre famiglie: lunghi falansteri che solo pochi anni prima avevano ospitato gli operai che dovevano costruire i palazzi dell’E.42, l’Esposizione Universale Romana. Oppure al cosiddetto Circolo, una grande cantina diventata sede delle attività ricreative della comunità, tra cui quella dell’Associazione Sportiva Giuliana, la squadra di basket che nel giro di pochi anni sarebbe assurta alla serie A del campionato di pallacanestro grazie al talento e al forte senso di squadra che univa giocatori e società. Ci arrivammo senza finanziamenti. Ricordo che nella settimana precedente alla partenza, io bambino, accompagnavo mio padre, che della squadra era il direttore sportivo, nel giro dei commercianti del Villaggio per raccogliere i finanziamenti relativi alla partenza in caso di trasferta. Arrivati in serie A le distanze, e quindi i costi, si fecero sempre più onerosi, per cui arrivammo stremati economicamente alla fine del campionato, per chiudere lì, per sempre, l’avventura della squadra.
Restava il calcio. Finito quello agonistico con il quale mio padre, non appena giunto in Italia, si era guadagnato da vivere giocando nella Sangiorgese di Porto San Giorgio, il paese marchigiano vicino a Servigliano dove era il campo profughi nel quale ci avevano mandato dopo essere scappati dalle nostre terre occupate dai titini, ci dovevamo accontentare di quello in tv. E la Nazionale italiana era la nostra squadra. Le partite internazionali, e nello specifico i Campionati del Mondo e quelli Europei, le competizioni che tiravano fuori tutto l’amor patrio, così grande in noi da spingerci addirittura all’esilio dalle nostre terre perdute, piuttosto che vivere sotto un altro Paese, un’altra bandiera. Volevamo che questa restasse il tricolore. I giocatori che scendevano in campo non erano solo questo, erano i nostri soldati che difendevano e davano onore, vincendo, a quella bandiera, dando un senso alla scelta estrema che avevano fatto di lasciare, con le loro città, le loro case, il loro lavoro, le tombe dei loro cari, vivendo solo dei propri ricordi.
Si capisce a questo punto l’importanza che, in un campionato europeo o mondiale, acquistava una partita contro la Jugoslavia, il Paese nemico, il Paese che si era preso le nostre terre, che aveva fatto di tutto, dall’arrestare e uccidere, gettando nelle foibe o annegando con una pietra al collo nel mare, chi si opponeva al disegno annessionistico di Tito, così come all’esproprio delle proprietà, aziende, attività commerciali, che dovevano essere nazionalizzate e le case, poi, divise con estranei, anzi stranieri, provenienti da altre parti della Jugoslavia: mio nonno, a Fiume, dovette dividere la sua casa a due piani con una famiglia serbo-montenegrina e il grande orto fu obbligato a cederlo per lasciar costruire sopra una palazzina. Non solo: anche una camera della loro casa veniva occupata da tre uomini arrivati dalle zone interne della Croazia per andare a lavorare nel cantiere o alla raffineria o al porto o presso altre aziende, ormai tutte nazionalizzate, e abbandonate dalle maestranze italiane che, come i miei genitori, avevano preferito la via dell’esilio rispetto a quella morte lenta dello spirito.
La Jugoslavia era il nemico da battere. Si aspettava l’incontro con ansia e paura, paura di perdere. Italia Italia, batteva il cuore. E diventava voce, grido, quando le nostre maglie azzurre scendevano in campo per vincere. Le poche strade del Villaggio Giuliano traboccavano di gente emozionata nell’attesa della partita, si beveva di più, si cantava di più, ci si stringeva di più, dandoci appuntamenti – quando la disponibilità degli apparecchi televisivi prese ad allargarsi – nelle case, tre, quattro famiglie per casa, mentre il televisore acceso non riusciva ancora, in attesa della partita, a catalizzare l’attenzione per dar spazio a commenti, previsioni, formazione. E si temeva la Jugoslavia, i brasiliani d’Europa com’erano chiamati i suoi giocatori, forti, decisi, ben preparati.
La partita clou fu quella dei campionati europei del 1968 che vedevano finalisti proprio l’Italia e la Jugoslavia. Io avevo vent’anni.
Formazione per l’Italia: Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarnieri, Salvadore, Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. Allenatore, Ferruccio Valcareggi.
Formazione per la Jugoslavia: Pantelić, Fazlagić, Damjanović, Pavlović, Paunović, Holcer, Acimović, Trivić, Musemić, Hosić, Dzajć. Allenatore Rajko Mitić.
La prima, l’8 giugno, finì 1 pari.
La seconda che doveva decidere il massimo titolo europeo si sarebbe svolta due giorni dopo, il 10 giugno. La tensione tra noi era allo spasimo. Mio padre di solito allegro e gioviale con tutti, sempre pronto alla battuta scherzosa, si era chiuso in un suo silenzio preoccupato. Dava a una sconfitta con la Jugoslavia, a un passo dal titolo, il significato di una nuova umiliazione. Ma era il sentimento un po’ di tutti noi. Un amico di mio padre, che era venuto a guardare la partita a casa da noi, perché aveva bisogno di dare uno sbocco, almeno a parole, alle sue emozioni, fingeva a se stesso di non aver paura, certo che l’Italia avrebbe vinto.
“Guardime come son tranquillo!”, diceva nel nostro dialetto istro-veneto, ed era le volte che più se la faceva sotto. Si notava anche dal tic che gli prendeva, un irrigidirsi del mento e della bocca che coinvolgeva la spalla, quando era nervoso. E quando la partita aveva preso avvio, eccolo commentare ogni corner a nostro favore con la frase “Se matura el goal!”. Ma ne aveva altre di battute, anche comiche tanto che finivano per alleggerire la tensione con cui guardavamo la partita.
Al primo goal di Riva la gioia esplose, invano trattenuta dal timore di un pareggio. Un altro giro di bicchieri di vino servì, oltre che a festeggiare il goal, anche ad allentare la tensione. Era poi accaduto che mia zia Maria, sorella di mio padre, al momento del goal era uscita in balcone a fumarsi una delle sue Mercedes. Non l’avesse mai fatto! Quella sua uscita aveva portato fortuna. Così non aspettavamo altro che uscisse di nuovo a fumare auspicando che l’Italia, grazie a quel suo scaramantico star fuori in balcone a fumare, segnasse ancora. Finché, davvero, arrivò il goal liberatorio di Anastasi. Domenghini, De Sisti, Anastasi…. Anastasiii… Goooaaaal: 2 a 0.
E fu, quello, il risultato finale.
La gioia di mio padre esplose liberatoria. Non si poteva restare chiusi in casa per festeggiare. Dovevamo uscire. E lo facemmo, prima per le strade del Villaggio e poi, accadde qualcosa che nella vita di mio padre restò unica, perché quella sua gioia non poteva contenerla, non poteva esprimerla solo con noi, con la nostra gente, ma al mondo intero. Signori, l’Italia ha battuto la Jugoslavia, questa volta è salita lei sul podio della vittoria, una vittoria che, seppur nel suo piccolo, faceva giustizia di quel tanto che lui e tutti gli esuli aveva perso nella loro vita a causa della Jugoslavia. Doveva gridarlo al mondo. Così facemmo una cosa mai fatta prima e mai più ripetuta: prendemmo la macchina per andare a festeggiare la vittoria al centro di Roma.
Ci ritrovammo in una via Veneto completamente occupata in ogni suo spazio, stradale e pedonale, dalla folla sventolante bandiere e maglie azzurre, ed io con mio padre tra quella, con la parola Italia, ripetuta mille volte, sulle labbra. Italia, Italia.
La nazionale era la sua unica squadra del cuore. Per il resto amava il bel calcio. Da vecchio, le partite di cartello importanti erano il suo momento più atteso. “Stasera me godo el Real Madrid col Bayern Monaco” diceva, sapendo che avrebbe visto il calcio che piaceva a lui. O il Barcellona e Manchester. Partite dalle quali traeva solo la gioia del bel gioco e non la sofferenza che gli procurava l’attesa di un incontro dell’Italia con le altre nazionali.
Soprattutto quando doveva giocare con la Jugoslavia. E quando questa finì, con la Croazia: perché dopo, con la dissoluzione della Jugoslavia, era la Croazia il Paese a cui Fiume, la sua città, era stata assegnata. Quella Fiume in cui lui e mia madre, ormai in pensione, avevano preso a tornare tutti gli anni per fermarsi i mesi estivi, da giugno a settembre, che trascorrevano a casa dei nonni, i genitori di mia madre, finché furono in vita, e poi con mia zia Joli, sorella di mia madre, nella stessa casa avita, Villa Laura, affacciata sul Golfo del Quarnero.
Era un momento, quello del ritorno a Fiume, che mio padre aspettava tutte le estati. La vita a Roma, dopo gli anni dei campi profughi, non contava niente, era come se avesse avuto un senso solo la vita, molto più breve, che aveva vissuto a Fiume, dalla nascita ai vent’anni, quando a 84 se n’era andato. Gli altri sessanta e passa anni che aveva vissuto a Roma, seppur il triplo di quelli, erano come rimossi. Nei suoi racconti tornava sempre e solo la sua gioventù, perché Fiume, era quella, tutto il resto era un postumo che non gli apparteneva.
A calcio pertanto, l’avversario da battere, il nemico, senza più la Jugoslavia, adesso era la Croazia. I sentimenti, nei confronti di questa, erano più o meno gli stessi che con l’altra, ma un po’ più ammorbiditi, dovuti forse alle lunghe estati che era tornato a trascorrere lì. In fondo, adesso, non c’erano più gli odiati comunisti di mezzo. E il ritorno della democrazia, e con essa il ripristino, per chi ancora le aveva, delle vecchie proprietà a chi le richiedeva, lo facevano guardare con più simpatia al nuovo Paese. Ne seguiva anche il campionato, tifando per il Rijeka, la squadra di Fiume, della quale andava a vedere non solo le partite, ma anche gli allenamenti, favorito dal figlio di un suo primo cugino di Albona che giocava nella squadra, maglia numero 5, nel ruolo di libero. La Croazia, la nazionale, aveva poi sempre ottime squadre, e uno come mio padre, amante del bel gioco, finiva anche per tifare, ma dipendeva, ovviamente, da chi era l’avversario del momento. Sicuramente l’Italia veniva prima di tutto e di tutti: incoronava il suo cuore oltre che la sua testa. E questa corona non doveva mai perdere il suo splendore. E il campo di calcio, quando giocava lei, restava il campo di Marte, il dio della guerra.
Così tornarono i campionati europei e tra questi quello in cui il destino della nazionale italiana s’incontra con quella croata. Siamo agli Europei del 1996, il primo al quale partecipa la Croazia dopo la fine della Jugoslavia. E già l’avvio, con le qualificazioni, non è di quelli buoni: l’Italia, allenata da Sacchi e vice-campione del mondo in carica, e Croazia s’incontrano in un giorno di novembre a Palermo e la nostra nazionale viene battuta per 2 a 1. Un anno dopo, sempre in chiave di qualificazioni, Italia e Croazia s’incontrano di nuovo, e quest’ultima ne esce imbattuta. Mio padre è arrabbiatissimo, anche perché la Croazia con quel pareggio vince il girone di qualificazione, con noi secondi nello stesso girone. Mio padre si chiede cosa accadrà agli Europei del 1996 dove arrivano entrambe le squadre. Ormai siamo in estate e mio padre, quell’anno, aspetta che finisca il torneo prima di partire per Fiume. Arriviamo così agli ottavi di finale. L’Italia viene eliminata dalla Repubblica Ceca per 2 a 1 mentre la Croazia passa. Per mio padre si prefigura il peggio, che la Croazia arrivi ai quarti e, quindi, alla semifinale e in finale con l’Italia ormai fuori del torneo. E vive la sconfitta come un’umiliazione. Medita di non andare a Fiume, quell’anno. Mia madre cerca di farlo ragionare, e anch’io: “Scherzi, papà?” E lui: “Cosa vado a far? A farme prender in giro?”.
I miei dovevano partire da lì a qualche giorno. Anzi era previsto che li accompagnassi io perché mio padre s’era rotto il femore e aveva difficoltà a guidare l’auto per tante ore fino a Fiume. 721 chilometri.
Aspetta la Croazia, che dovrà vedersela con la Germania, al varco. Siamo al 23 giugno. Mio padre è determinato: se la Croazia passa, quell’anno resterà a Roma, non andrà a capo chino a farsi prendere in giro dai suoi amici croati. C’è il fischio d’inizio. La partita è maschia. Ma ecco al 21° alla Germania viene dato un rigore. Klinsmann dal dischetto non sbaglia. Forza Cruchi, tifa mio padre, quella volta. Assiste teso, la Croazia è sempre pericolosa. E, infatti, al 51° Šuker, che è il capocannoniere, pareggia. E manca ancora tanto alla fine della partita. E in squadra, oltre a Šuker ci sono giocatori come Šimić e Boban. C’è un continuo capovolgimento di fronti. E il pareggio dura pochi minuti. Al 59° Sammer porta in vantaggio la Germania. Urra! Ma c’è ancora una bella frazione di partita e può succedere di tutto. Mio padre freme. È in gioco la sua estate fiumana. Finalmente la partita finisce: 2 a 1 per i Cruchi è il verdetto finale. La Croazia è fuori.
Mio padre tira un sospiro di sollievo. Non avrebbe resistito un intero lungo anno lontano da Fiume. Alla fine, contento, chiama mia madre: “Ucci, prepara le valigie, che partimo!”.
Per quell’anno, in qualche modo, era riuscito a consolarsi. Ma già due anni dopo, ai Mondiali del ‘98, l’umiliazione sarebbe stata più grande: la Croazia avrebbe fatto filotto eliminando la Turchia, la Danimarca, al momento addirittura campione d’Europa in carica, e quindi la Germania: si sarebbe così guadagnata le semifinali, arrivando terza dopo aver battuto i Paesi Bassi.
Ma sarebbe stata solo una delle tante delusioni che mio padre, in questi confronti diretti, si sarebbe portato dietro nel corso degli anni, fino alla sua morte avvenuta nel maggio del 2010. Purtroppo non ha mai avuto la soddisfazione di vedere l’Italia battere la Croazia, così come l’aveva vista battere, nel 1968, la Jugoslavia. Quando accadrà avrà tutto il paradiso da correre per gridare la sua gioia. Italia, Italia!
Intanto io un po’ lo tradisco. Agli ultimi Mondiali, avvenuti in Russia nel 2018, eliminata l’Italia, ho tifato fortemente Croazia, che per la prima volta nella storia arrivò in finale. L’avversaria era la Francia. Non potevo guardare da solo una partita del genere, avevo bisogno, accanto, di qualcuno che desse più eco al mio tifo. Chiamai a vedere con me la partita un amico moldavo e la sua famiglia. Lui sapeva quanto amassi quel Paese del quale sapeva la mia famiglia proveniva. Fiume e l’Istria di cui gli parlavo sempre non stavano forse in Croazia?
Diego Zandel (Fermo, 1948), scrittore italiano di origine fiumana. Nasce quando la sua famiglia è ospite nel campo profughi di Servigliano, che raccoglie gli esuli italiani in fuga dalla Iugoslavia di Tito. La sua produzione letteraria sarà fortemente influenzata dalle sue origini. Pietre miliari i romanzi I confini dell’odio e I testimoni muti.