Con l’Ucraina che rappresenta da sola il 10% degli scambi mondiali di grano la chiusura dei corridoi di pace per l’export sconvolge il mercato con effetti sui prezzi e sugli approvvigionamenti alimentari nei Paesi ricchi e soprattutto in quelli poveri.
Con l’Ucraina che rappresenta da sola il 10% degli scambi mondiali di grano la chiusura dei corridoi di pace per l’export sconvolge il mercato con effetti sui prezzi e sugli approvvigionamenti alimentari nei Paesi ricchi e soprattutto in quelli poveri. E’ quanto afferma la Coldiretti nel sottolineare che le quotazioni di grano, mais e sono immediatamente schizzate alla riapertura settimanale del Chicago Board of Trade (Chicago), punto di riferimento delle materie prime agricole, dopo la decisione della Russia di interrompere l’accordo raggiunto con Nazioni Unite, Turchia e Ucraina per assicurare i traffici commerciali nei porti del Mar Nero.
Una situazione aggravata dal forte ridimensionamento delle semine di cereali invernali in Ucraina che scendono ad appena 3,8 milioni di ettari rispetto ai 6 milioni del 2021 secondo il Ministero dell’agricoltura locale. Una situazione che alimenta l’interesse sul mercato delle materie prime agricole della speculazione che si sposta dai mercati finanziari ai metalli preziosi come l’oro fino ai prodotti agricoli dove le quotazioni dipendono sempre meno dall’andamento reale della domanda e dell’offerta e sempre più dai movimenti finanziari e dalle strategie di mercato che trovano nei contratti derivati “future” uno strumento su cui chiunque può investire acquistando e vendendo solo virtualmente il prodotto, a danno degli agricoltori e dei consumatori.
In questo scenario il rischio carestia riguarda in particolare quei 53 Paesi dove la popolazione spende almeno il 60% del proprio reddito per l’alimentazione e risentono quindi in maniera devastante dall’aumento dei prezzi dei cereali causato dalla guerra. L’inevitabile indebolimento della produzione agricola ucraina e la paralisi dei porti del Mar Nero hanno sottratto un bacino cruciale per l’approvvigionamento alimentare di vaste aree del pianeta. Russia e Ucraina rappresentano, sommate, poco più del 30% delle esportazioni di cereali, oltre il 16% di quelle di mais e oltre il 75% di quelle di olio di semi di girasole, secondo un’analisi del Centro Studi Divulga.
Un’emergenza mondiale che riguarda direttamente anche l’Italia, un Paese deficitario ed importa addirittura il 62% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti, il 35% del grano duro per la pasta e il 46% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame. L’Ucraina con una quota di poco superiore al 13% per un totale di 785 milioni di chili è il secondo fornitore di mais dell’Italia che è costretta ad importare circa la metà del proprio fabbisogno per garantire l’alimentazione degli animali nelle stalle mentre garantisce invece appena il 3% dell’import nazionale di grano (122 milioni di chili) e sono pari a ben 260 milioni di chili gli arrivi annuali di olio di girasole, secondo l’analisi su dati Istat relativi al commercio estero 2021.
“L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che hanno dovuto ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni” afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare l’importanza di intervenire per contenere il caro energia ed i costi di produzione con misure immediate per salvare aziende e stalle e strutturali per garantire in futuro la sovranità alimentare del Paese. Occorre lavorare da subito per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali ma – conclude Prandini – serve anche investire per aumentare produzione e le rese dei terreni con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che sta costringendo in molte zone interne all’abbandono nei terreni e sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica a supporto delle produzioni, della tutela della biodiversità e come strumento in risposta ai cambiamenti climatici.