Il libro di ‘L’uso ingiusto della giustizia’ di Antonio D’Errico è un saggio inchiesta sulla malagiustizia italiana e soprattutto sull’uso disonesto e arbitrario da parte di alcuni magistrati, aspetto che apre ad ampie riflessioni.
Di solito sono più i numeri a farci paura delle parole. Ma a volte le percentuali si coniugano con le testimonianze dirette e non sai se credere ancora a una società migliore. Il libro L’uso ingiusto della giustizia (ed. Libeccio, p 142, euro 14,40) di Antonio D’Errico è uno di quei saggi che non vorresti mai prendere tra le mani e né sfogliare o leggere o, peggio, approfondire, perché ti trasferiscono un senso di nausea, depressione, amarezza e frustrazione che difficilmente ti abbandonano.
Già dalle prime pagine ti verrebbe voglia di alzare bandiera bianca. Non nel proseguire con la lettura, ma nel credere che possa esistere una società migliore, fatta di giustizia equa (scusate il bisticcio di parole…) e di futuro meno tortuoso per la collettività in nome di uno sviluppo sereno del territorio.
Si parte dai numeri, dicevamo. Nella prefazione dell’onorevole Rita Bernardini i numeri non mentono: ogni anno in Italia vengono processate 150mila persone, di cui la metà viene assolta, il che significa che le indagini sono fatte male o le persone giudicate hanno subito un contraccolpo psicologico per aver avuto l’onta di affrontare un procedimento. Non sono solo numeri, dicevamo, D’Errico ha la capacità di ordire un’architettura narrativa e di testimonianze dirette che impreziosiscono il testo, chiamando in causa 6 fatti di cronaca che hanno suscitato scalpore e che dovrebbero creare un’indignazione che fa rima con giustizia. Un’indignazione che purtroppo non si sposa con l’antico dilemma: quando i magistrati sbagliano perché non pagano? È vero che restano la casta più intoccabile del Bel Paese? E come mai queste carriere separate non sono ammesse?
Certo l’arroganza del potere di certi magistrati corrotti è uno schiaffo alla legalità, alla legge, ala socialità, al viver civile, alla speranza di contribuire a creare un mondo più giusto ed equo.
Nel testo sono descritte le vicende di onesti cittadini, imprenditori, ufficiali delle forze dell’ordine, un volontariato attivo nella sanità pubblica, un sindaco che hanno perso ogni fiducia quando sono stati raggiunti e colpiti dall’azione devastante e pretestuosa di un procuratore accusato di corruzione, di scambio di favori e destinatario di mazzette a cinque zeri. Casi non isolati, che si ripetono, a ciclo continuo, che fanno dubitare del senso di giustizia. Così D’Errico riporta le parole dirette di chi è stato perseguitato, subendo blitz nelle loro attività, ristoranti e camping che fossero, con un numero cospicuo di agenti delle forze dell’ordine, movimentando volanti, barche e natanti della guardia costiera, perfino un elicottero, sperperando soldi pubblici. È qui che inizia il calvario di persone che nel quotidiano lottano per una vita ‘normale’, per una vita ordinaria fatta di soddisfazioni, ma che invece si ritrovano a dimostrare estraneità, innocenza, profilo basso all’interno di un tribunale che già li condanna socialmente appena varcano le soglie delle sue aule. Esempi di malagiustizia che vanno denunciati ma che abbracciano una grande lotta sociale: quella di responsabilizzare quel gruppo di potere che può decidere in modo arbitrio delle sorti e della vita dei cittadini, umiliandoli e uccidendoli dentro per sempre.